Un posto fisso non sempre è un posto sicuro

Anche l’agognato “indeterminato” può essere un percorso accidentato con malattie e invalidità

Pubblicato da Oriana Gullone il 19 maggio 2023

Leggiamo all’inglese la parola sicurezza. I feel safe significa mi sento al sicuro più che mi sento in sicurezza, che dà invece una sfumatura tecnica all’argomento.

Luca, Giada, Veronica e Dario hanno dai 22 ai 35 anni e vivono tra Milano, Ancona e Roma.

Chi dice di sentirsi più al sicuro sono gli uomini, entrambi milanesi, pur vivendo situazioni opposte.

Luca ha 23 anni, ha appena firmato l’indeterminato nell’azienda di e-commerce dove si occupa di logistica. Con questo stipendio, potrebbe pensare di andare a vivere da solo “non certo a Milano”, ma chi può permetterselo? In altre aziende prenderebbe anche di più, ma il plus di lavorare con quasi 90 coetanei, la tranquillità di parlare la stessa lingua, non ha paragoni.

Dario di anni ne ha 35, dal 2008 convive con la pseudo ostruzione intestinale cronica (in inglese CIPO, Chronic Intestinal Pseudo Obstruction), patologia ultra-rara, che prevede terapie di mantenimento a tempo pieno, tra cui l’alimentazione artificiale. La commissione INPS gli riconosce subito il 100% di invalidità e l’accompagnamento, che gli garantiscono un contributo di circa 1100€ al mese. La casa dove vive con i suoi è di famiglia: “mi sento abbastanza tranquillo, anche per quando i miei, entrambi pensionati, non ci saranno più”. Insomma, sul filo, ma al sicuro.

Veronica è del ’92, stessa diagnosi di Dario dal 2019. Secondo la commissione INPS sta bene, perché non pesa più 36kg come alla diagnosi: 80% di invalidità e 290€ di assegno mensile.

"Posto fisso". Illustrazione di Aurora Protopapa

Non tutte le visite sono esenti da ticket, le liste d’attesa non sono compatibili con le urgenze, e papà aiuta finché può, ma quando non potrà più? La casa è in affitto e la famiglia non è benestante. Fa ricorso, l’INPS riconosce il 100% ma non l’accompagnamento. 660€ di pensione d’invalidità, non del tutto compatibile col Reddito di Cittadinanza, che arriva, ma ridotto.

NB: clinicamente parlando, la CIPO rientrerebbe nelle circostanze dell’Inabilità al lavoro, che è un sussidio a sé pensato per chi fisicamente non è assolutamente in grado di lavorare, ma l’iter prevede un obbligo minimo di contributi versati, che né Dario né Veronica hanno avuto il tempo di maturare. Anche potendo lavorare, il limite di reddito annuo personale è di 17.920€ per chi percepisce la pensione, e di 5.391,88 € per chi percepisce l’assegno di invalidità. Superarlo vuol dire vederseli ritirare del tutto.

Giada ha quasi 22 anni: «Vivo col mio fidanzato ad Ancona. Ho lavorato come Categoria Protetta in un supermercato. Sulla disabilità fisica, eredità di un tumore infantile, nessuno ha da ridire. Ma c’è una diagnosi più recente, di ADHD e autismo, che nemmeno l’INPS valida completamente perché ottenuta privatamente.»

Dopo una prima sensazione di ascolto da parte dei responsabili, per Giada valgono gli standard di chiunque altro: 50€ di spesa da battere in meno di due minuti, casse d’acqua da sollevare, rimproveri che le causano vari meltdown. «Al di là della non preparazione dei dirigenti sul gestire una Categoria Protetta, che può esserlo per mille motivi, la retorica del lavoro basata sul sacrificio è: “se non ti spacchi la schiena sei svogliato”. Ma i miei limiti sono reali, non rispettarli vuol dire stare seriamente male. Mi sono licenziata.»

Quali sarebbero le condizioni per sentirsi più al sicuro? «Banalmente più soldi, case a prezzi agevolati, centri specialistici più a portata di mano (il centro di riferimento per la CIPO è a Bologna)», per Dario e Veronica.

“A me basterebbe trovare dei responsabili in azienda che mi ascoltino e si fidino delle mie spiegazioni su come funziono. Il giusto compromesso si troverebbe insieme”, aggiunge Giada. “Tutela, una rete di supporto. Averla sul lavoro, sapere di lavorare con persone che sanno come parlare la tua lingua, o comportarsi in caso di emergenza, cambierebbe tutto".

A me basterebbe trovare dei responsabili in azienda che mi ascoltino e si fidino delle mie spiegazioni su come funziono. Il giusto compromesso si troverebbe insieme.

Bill Niada, fondatore del Bullone, forse ci ha visto lungo: “Questi ragazzi non sono difettosi, perché malati. La malattia gli ha insegnato competenze che tu non hai. Se li ascolti con attenzione, ci guadagnerai tu e tutto il team”.