Siamo quel che diciamo

Paolo D'Achille: non sono tanto le parole a offendere quanto chi le pronuncia. La lingua deve essere ospitale, garantendo a tutti la possibilità di comunicare

Pubblicato da Sara Aiolfi il 31 maggio 2024

Il modo in cui parliamo delle cose fa inevitabilmente parte della loro definizione; può non corrispondere alla definizione che troviamo nel lemma corrispondente in un dizionario, ma indubbiamente contribuisce a determinare il significato della parola, e del concetto che essa esprime, all’interno del contesto socioculturale di chi ne fa uso. In altri termini, il linguaggio che adoperiamo dice molto del nostro pensiero, dei nostri valori, della nostra visione del mondo. Perché parlando operiamo una continua serie di scelte, a volte anche inconsce; e ogni scelta ha le sue conseguenze. Ne abbiamo parlato, a partire dalla stretta attinenza che la questione ha con il tema della disabilità, con il professor Paolo D’Achille, noto linguista, che dal 28 aprile 2023 è presidente dell’Accademia della Crusca, il quale alla lingua italiana e al suo lessico ha dedicato tanti suoi studi, e scelte di vita.

Come si garantisce, a suo parere, il rispetto della persona, in particolare con disabilità, attraverso il linguaggio, scritto e parlato?

Mi sembra d’obbligo fare una premessa: non esiste, sulla questione, una regola assoluta e valida a priori e in ogni situazione, per tutti i parlanti. Il punto non è privare le parole della loro possibilità di offendere, che dipende molto dall’uso che ne fa ogni parlante. Ciò che davvero è importante, a mio avviso, è fare in modo che tutte le persone, comprese quelle non vedenti o non udenti, possano essere raggiunte dai messaggi. Sono tanti i passi in avanti che, nel tempo, sono stati fatti in questa direzione. Va tuttavia sempre tenuto conto che la diversità non è mai una sola, ma  è sempre relativa e variamente rappresentata. La lingua deve essere il più possibile “accogliente”, per usare l’aggettivo che compare nel titolo di un libro-intervista che Cristiana De Santis ha fatto al mio maestro Francesco Sabatini: Un italiano accogliente, e che è preferibile a “inclusiva”, perché “inclusione” è un termine ambiguo, che può implicare anche il togliere la possibilità di cogliere le differenze. Meglio, allora, “ospitale”. Ma, per farla essere tale, non significa ricorrere al “politicamente corretto” in ogni situazione.

Siamo quel che diciamo Dimmi come parli e ti dirò chi sei. Illustrazione di Aurora Protopapa.

Tenere in considerazione tutte le esigenze della comunità parlante non deve essere semplice. Come ci riuscite, soprattutto in relazione ai neologismi?

Ci tengo a precisare, innanzitutto, che l’Accademia non seleziona i neologismi in vista del loro inserimento nei vocabolari. La Crusca offre consulenze in merito a quei neologismi, segnalati dagli utenti o rilevati dai nostri ricercatori, che, pur essendo utilizzati nello scritto e nel parlato, non hanno trovato posto nei dizionari. Come avviene il processo? Una redazione a questo predisposta rileva le occorrenze di un dato neologismo in rete e sui giornali; se verifica che è abbastanza diffuso, ma non è stato ancora inserito nei dizionari, lo definisce, dando chiarimenti sul suo significato e sulla sua storia. Alla raccolta dei neologismi è dedicata una sezione specifica del nostro sito, intitolata, appunto, “Parole Nuove”.

Quanto e come incide sul vostro lavoro il peso della responsabilità sociale del vostro ruolo?

L'Accademia della Crusca è un ente statale che dipende dal Ministero della Cultura, e, di conseguenza, è sentita più come un’istituzione culturale che non come un istituto di ricerca. Quello che senza dubbio cerchiamo sempre di mantenere è un atteggiamento equilibrato: non è mai nostra deliberata intenzione innescare polemiche, men che mai su temi caldi come quello della cosiddetta “diversità”. Ogni lingua si differenzia dalle altre e ha delle caratteristiche proprie, che si spiegano con la storia: non tutte le lingue possono esprimere nello stesso modo le stesse cose. Pensiamo alle differenze tra italiano e inglese rispetto al genere grammaticale. In inglese sono davvero poche le parole che specificano il genere, a parte i pronomi personali, in italiano la differenza di genere è fondamentale per il sistema grammaticale italiano (accordi intrafrasali e interfrasali, ecc.) e l’eliminazione della distinzione del genere grammaticale con riferimento alle persone, sovvertendo alcuni usi consolidati negli accordi e nelle concordanze, comporterebbe il passaggio a una lingua diversa dall’italiano che parliano attualmente, e che ha ancora una continuità con la lingua del passato. Peraltro, a livello internazionale all’italiano viene riconosciuto un grande prestigio per la cultura che veicola, a cominciare da Dante. Possiamo sfruttare certe sue peculiarità per usarla in modo non sessista e non discriminatorio, senza pretendere di modificare il peso che in italiano rivestono le distinzioni in due generi grammaticali, che sono cose ben diverse dai generi naturali.