Cos’è, sognare, se non guardare avanti? E cos’è, guardare avanti, se non avere prospettiva? Viviamo in una società dichiaratamente performativa che spesso ci fa guardare al futuro stilando liste di buoni propositi: buoni propositi a settembre, buoni propositi il primo gennaio, buoni propositi quando si compiono gli anni. Oggi, però, di lista, rovesciando la prospettiva ma mantenendone il significato etimologico (pro-spicio), provo a proportene un’altra.
Forse la conosci già, magari invece no. In sintesi, estrema: la tecnica dei centouno desideri è una strategia, ottima, per fermarti a riflettere con te stesso su quali siano le tue priorità nella vita. Un esercizio che a prima vista può sembrare enorme, tanto da dare le vertigini. O almeno questo è quello che ho provato io al pensiero di scrivere le centouno cose che “voglio”.
Sin da piccolo, mi è stato insegnato che questo verbo, alla prima persona singolare, è quasi una parolaccia, oltre che qualcosa che va evitato strutturalmente, dal momento che sono più le volte in cui finisci per piangere davanti alla vetrina rispetto a quelle che ti vedono effettivamente in possesso dei mezzi per procurarti l'oggetto del tuo desiderio. Ed è così che, per non finire per essere perennemente deluso, ho iniziato ad addolcire l’atto di desiderare attraverso formule come “vorrei”, “mi piacerebbe tanto che”, “sarei felicissimo se”. Attenzione: non sono meccanismi che rinnego; li ritengo anzi più sani che avere una pallina da tennis in testa che rimbalza al ritmo costante di voglio, voglio, voglio. Tuttavia, la tecnica dei centouno desideri impone l'uso, all’indicativo (modo della realtà), di questo verbo. E ammetto che, mettendomi alla prova in prima persona, è una cosa che ho trovato parecchio difficile: per via dei miei vissuti, infatti, non mi sento in grado di volere qualcosa con intenzione e intensità, soprattutto se si tratta di qualcosa di e in grande. Mi accorgo che spesso ciò che desidero è superficiale, e non fa neanche tanto il mio interesse: vizi o comodità che in fondo non mi servirebbero nemmeno... Insomma, a volte è quasi utile fare ciò che non vuoi, per scoprirti in grado di volere effettivamente qualcosa.
"A occhi aperti". Illustrazione di Aurora Protopapa.
Ma non è questo forse un ulteriore modo per continuare a scappare dalla responsabilità dei propri sogni? Mi sono risposto di sì, mi sono seduto a tavolino, e ho letto bene le istruzioni della tecnica: non bisogna desiderare denaro, e niente desideri che portino benefici per gli altri; solo obiettivi e oggetti legati a desideri personali. È passato un quarto d’ora, ne ho scritti sei, e sento di non poter andare oltre, come se, dopo averli riletti, fossi certo che il settimo sarebbe superfluo. Non solo: mi accorgo pure che io per primo non so se, al di là di quei sei, sono sicuro di voler realizzare i desideri che mi vengono in mente a seguire; sono figli del momento, e magari tra due anni non vorrò più andare in Costa Azzurra, pure se ne avrò la possibilità. Eppure, ho scritto voglio per ben sei volte, quando pensavo di non potermelo permettere nemmeno una. A qualcun altro l’esercizio servirà invece per tagliarne quarantanove dei centocinquanta che ha scritto, a qualcun altro ancora per scoprire che i giorni a venire non sono soltanto fogli d’agenda pieni zeppi di impegni. Per me, oggi, va bene così.