Pugni fuori dallo stomaco

Siamo soli, nel profondo di noi, ma si può stare vicini anche se non si coincide con l’altro

Pubblicato da Federica Margherita Corpina il 14 febbraio 2025

C’è un posto che, per quante mani e funi si possano porgere o lanciare, resta inarrivabile. Eppure, tutti ci vorremmo presto o tardi portare qualcuno: una madre, un padre, una figlia, un fratello, un amore, un terapeuta, un amico. Ce li trasciniamo dentro a fatica o a volte, al contrario, ci sforziamo di spostare la montagna da Maometto. Solo che, nel nostro più profondo, di altro al di là di noi, non c’è proprio niente. E, per quanto possiamo provare a portare noi stessi fuori, magari per prendere per mano qualcuno e fare la strada di ritorno insieme, c’è una soglia che non ci è dato varcare o meglio, raccontare: su quella porta lì, si combatte in silenzio.

Il che ha dell’incredibile, indubbiamente: non tuonano colpi, non si odono urla, non riecheggia il suono di contatto alcuno. La lotta, che comunemente prevede il coinvolgimento di almeno due attori, è qui individuale. Quindi, paradossalmente, indivisa. Quindi, conseguentemente, impossibile. Non si può fare a botte con l’incomunicabile. Né le parole, se prese a pugni, prendono la forma, ammaccata e livida, dei nostri interni. Ci sono fatiche indicibili, lotte che non fanno rumore, felicità mai pienamente condivisibili. E restiamo tutti scarafaggi sulla schiena a zampettare in aria mutismi forzati dalla non alterità dei nostri nuclei. Oltre che non coincidenza. Perché è poi proprio l’essere altro da altri che ci tiene, dagli altri appunto, a incolmabile distanza, anche quando vorremmo buttargli addosso noi e, come mantelli magici, farli sparire per un attimo nella piena incoscienza delle nostre verità.

Maruska Albertazzi "[...] finché pretenderemo legittimità dal riconoscimento, ci ritroveremo in una casa scoperchiata a chiederci come facciano gli altri a vederci un tetto, quando noi ci sentiamo zuppi di pioggia". Illustrazione di Aurora Protopapa.

Lottiamo per essere creduti, lottiamo per essere capiti, lottiamo per aprirci il petto in due e spalancare una porta murata su quello che siamo e viviamo e sempre solo solitariamente sentiamo. Ma è una passione inutile, come direbbe Sartre, che non trova completamento nel rapporto con l’altro perché cerca, nell’altro, un sé sovrapponibile, piuttosto che una diversità “vicinabile”. Si lottava, insomma, fino a questo punto, per il fine sbagliato.

Perché è inutile – di nuovo – cercare di portare compagnia a qualcuno con cui non abbiamo il coraggio di stare. E costringerci in parole che non sappiamo accettare risultino incomprensibili a chi, con orecchio eternamente estraneo, si dispone comunque ad ascoltarle, significa pure svalutare ogni possibile incontro, per quanto sempre a metà strada. Dentro c’è da lottare per saperci stare, senza nessuno né accanto né di fronte. Tutto tace, a eccezione del battito volubile di ciò che solo a noi può chiedere piena fiducia. Il resto aiuta, certo, ma non basta: perché finché pretenderemo legittimità dal riconoscimento, ci ritroveremo in una casa scoperchiata a chiederci come facciano gli altri a vederci un tetto, quando noi ci sentiamo zuppi di pioggia.