C’è un posto che, per quante mani e funi si possano porgere o lanciare, resta inarrivabile. Eppure, tutti ci vorremmo presto o tardi portare qualcuno: una madre, un padre, una figlia, un fratello, un amore, un terapeuta, un amico. Ce li trasciniamo dentro a fatica o a volte, al contrario, ci sforziamo di spostare la montagna da Maometto. Solo che, nel nostro più profondo, di altro al di là di noi, non c’è proprio niente. E, per quanto possiamo provare a portare noi stessi fuori, magari per prendere per mano qualcuno e fare la strada di ritorno insieme, c’è una soglia che non ci è dato varcare o meglio, raccontare: su quella porta lì, si combatte in silenzio.
Il che ha dell’incredibile, indubbiamente: non tuonano colpi, non si odono urla, non riecheggia il suono di contatto alcuno. La lotta, che comunemente prevede il coinvolgimento di almeno due attori, è qui individuale. Quindi, paradossalmente, indivisa. Quindi, conseguentemente, impossibile. Non si può fare a botte con l’incomunicabile. Né le parole, se prese a pugni, prendono la forma, ammaccata e livida, dei nostri interni. Ci sono fatiche indicibili, lotte che non fanno rumore, felicità mai pienamente condivisibili. E restiamo tutti scarafaggi sulla schiena a zampettare in aria mutismi forzati dalla non alterità dei nostri nuclei. Oltre che non coincidenza. Perché è poi proprio l’essere altro da altri che ci tiene, dagli altri appunto, a incolmabile distanza, anche quando vorremmo buttargli addosso noi e, come mantelli magici, farli sparire per un attimo nella piena incoscienza delle nostre verità.
"[...] finché pretenderemo legittimità dal riconoscimento, ci ritroveremo in una casa scoperchiata a chiederci come facciano gli altri a vederci un tetto, quando noi ci sentiamo zuppi di pioggia". Illustrazione di Aurora Protopapa.
Lottiamo per essere creduti, lottiamo per essere capiti, lottiamo per aprirci il petto in due e spalancare una porta murata su quello che siamo e viviamo e sempre solo solitariamente sentiamo. Ma è una passione inutile, come direbbe Sartre, che non trova completamento nel rapporto con l’altro perché cerca, nell’altro, un sé sovrapponibile, piuttosto che una diversità “vicinabile”. Si lottava, insomma, fino a questo punto, per il fine sbagliato.
Perché è inutile – di nuovo – cercare di portare compagnia a qualcuno con cui non abbiamo il coraggio di stare. E costringerci in parole che non sappiamo accettare risultino incomprensibili a chi, con orecchio eternamente estraneo, si dispone comunque ad ascoltarle, significa pure svalutare ogni possibile incontro, per quanto sempre a metà strada. Dentro c’è da lottare per saperci stare, senza nessuno né accanto né di fronte. Tutto tace, a eccezione del battito volubile di ciò che solo a noi può chiedere piena fiducia. Il resto aiuta, certo, ma non basta: perché finché pretenderemo legittimità dal riconoscimento, ci ritroveremo in una casa scoperchiata a chiederci come facciano gli altri a vederci un tetto, quando noi ci sentiamo zuppi di pioggia.