Alla luce. Ma serve la crema solare?

La visibilità comporta riconoscimento, esporsi comporta responsabilità.

Pubblicato da Lisa Roffeni il 21 maggio 2025

Quante volte, nel corso della propria vita, si è desiderato poter essere invisibili? Fuggire, nascondersi dal mondo, talvolta persino a sé stessi. Quante altre, invece, si vorrebbe soltanto mostrarsi? Avere l’opportunità di essere notati, ascoltati e visti per ciò che si è?

Fa tutto parte della vita di tutti; eppure, per qualcuno, questo equilibrio di parti si rompe, a causa di diversi fattori condizionanti.

Esistono malattie visibili e invisibili: partiamo da qui. Gli individui affetti dalle prime, che si tratti di segni fisici o sintomi evidenti, inequivocabili per un occhio esterno, vanno avanti per la propria strada con la costante paura di ritrovarsi delle etichette attaccate addosso. Non tutti, infatti, hanno una mentalità abbastanza aperta da permettere il loro inserimento a livello sociale e, per quanto riguarda la sfera lavorativa, vale per lo più lo stesso principio. Nonostante questo, le loro difficoltà, in quanto appunto visibili, sono comunque oggetto di attenzione: pensiamo a certe agevolazioni, per esempio, sancite anche a livello legislativo. Non vale lo stesso, però, per quelle malattie che invece visibili non sono: spesso la loro entità è sottovalutata da chi è poco attento o sensibile. Inoltre, non sempre vengono riconosciute, anche legalmente, e di conseguenza diventa più complesso, per chi ne soffre, ricevere aiuto.

Vorrei portarvi un esempio ambivalente e lampante di questa condizione parlando, nello specifico, di DCA, malattie, che per definizione vengono chiamati disturbi alimentali, che io stessa - tramite anoressia nervosa – ho vissuto. Le controversie per quanto riguarda i disturbi del comportamento alimentari sono molteplici: in certi casi il disagio è visibile – momento nella quale questi vengono definite malattie in campo medico -, in altri affatto – spesso circostanze dove tali disturbi vengono sottovalutati –, in altri ancora quello stesso corpo, oltre ad alzarsi dal tavolo della cucina di casa senza aver toccato cibo, appare pure in una foto su Instagram, X, TikTok, o qualsiasi altra vetrina. E, se così fosse, avremmo tutti la lucidità di andare a leggere quanto scritto sotto, o – e sarebbe ancora più difficile – anche solo dietro? Sempre che non vi siano annessi messaggi volutamente triggeranti, naturalmente.

A perdita d’occhio "A perdita d’occhio". Illustrazione di Aurora Protopapa.

Il lessico specifico prolifica oggi forse tanto quanto questo genere di immagini: si parla di thinspo, edtwt, profili recovery, body checking, what I eat in a day, fitspiration, diet culture. E ci si ritrova quasi perennemente esposti alla martellante esposizione di corpi e piatti e cose altrui. Ma se, da una parte, fare “community” e rivedere, nelle foto e parole di altri, il riflesso della propria non felice condizione può essere in qualche modo di conforto, dall’altra, studi dimostrano come la frequenza di utilizzo dei social media sia legata a una maggiore insoddisfazione corporea e alla comparsa di sintomi di disturbi del comportamento alimentare. Il raggiungimento di una condizione di magrezza, anche patologica, diventa quindi quasi un successo: diventa aesthetic, come diremmo oggi.

Dunque, che fare? Perché un modo deve pur esserci, per portare alla luce le malattie invisibili, anche quelle ancora meno facilmente diagnosticabili dei DCA.

Certo è che decidere se mostrare o meno la propria patologia non è certo cosa da nulla: potrebbe sembrare più semplice, a volte, non dover scalare i muri innalzati dai pregiudizi per farsi conoscere per quel che si è; ma pure fare costantemente fatica a vedersi garantite agevolazioni alle quali si avrebbe diritto può risultare spiacevole.

Anche al di là della malattia, ciascuno ha pregi e difetti, punti di forza e di debolezza, desideri, passioni, talenti, ed è umano, con questi strumenti, voler tracciare autenticamente il proprio sentiero. Andrebbe sempre garantita a tutti, perciò, la possibilità di mostrarsi – per intero, se e quando lo si vuole, e pure se rotti – e tutti siamo corresponsabili della concretizzazione di questa promessa e, al tempo stesso, della tutela della sensibilità di chi, dall’altra parte, (ci) riceve.