Mi sono fatto scambiare per...

Il mondo è una grande esposizione, ma io non voglio più andarci in maschera.

Pubblicato da Riccardo Russo il 21 maggio 2025

Una cosa difficile da accettare, e forse anche capire, è che il mondo pare essere tutto una grande esposizione: se ti presenti con una maschera puoi impressionare gli altri, ma non soddisferai mai te stesso.

Dico che non l’ho capito, perché scoprirsi e accettarsi è un percorso che solitamente dura una vita, ma, quando si ha una malattia permanente, quel percorso si complica: bisogna fare i conti sia col proprio ego sia con l’idea che esso venga invalidato da una condizione che gli altri non hanno. Questo, almeno, è ciò che spesso ho pensato.

Sono Riccardo, ho ventitré anni e, quando andavo al liceo, ho scoperto di avere una malattia congenita che, al momento, non prevede cure. Quando l’ho scoperto, ho affrontato un breve periodo di tristezza e riflessione personale, che si è risolto in un sostanziale e silenzioso rifiuto. Vedevo la vita come una sorta di corsa a degli obiettivi (aleatori): se le persone “sane” partono libere, chi ha una situazione di questo genere parte con un peso legato alla vita, un handicap che trasforma tutto quello che di base è già difficile in difficilissimo, a volte quasi impossibile.

All’epoca respinsi la notizia, perché il mio corpo me lo permetteva. L’unico momento in cui non potevo evitare di esporre questo problema era durante l’ora di educazione fisica, dove la mia capacità respiratoria ridotta mi impediva di correre come tutti gli altri. E, sempre per evitare di rendere manifesta la mia condizione, non ne parlai in termini chiari con il professore, che finì per pensare che fossi uno svogliato.

(Mi) volto "(Mi) volto". Illustrazione di Aurora Protopapa.

Crescendo e continuando a sottovalutare il problema, ho finito per sbattere contro diversi muri, finché non ho dovuto fare i conti con una malattia che ormai non potevo più nascondere. Ancora oggi per me è difficile sia conviverci che dovermi mostrare inevitabilmente fragile.

Ecco che allora, però, ho iniziato a indagare la mia condizione. Una delle risposte migliori che ho trovato è stata nel libro L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, in cui Oliver Sacks sottolinea come la mente di ogni suo paziente neurologico non sia “disfunzionante”, bensì semplicemente una forma alternativa di coscienza, capace di essere efficiente in modi sorprendenti. In questo senso è sbagliato definire una malattia invalidante, come ho volutamente fatto prima, perché se la si accetta e ci si inizia a muovere all’interno di quel contesto, è semplicemente un’altra maniera di stare al mondo, con la sua logica e il suo significato.

E allora cosa manca? Sebbene abbia sposato pienamente questo concetto, per me resta difficile cambiare una personalità che negli anni si era ormai costruita su un’altra idea. Tuttavia, non smetterò di provarci. Per partecipare all’esposizione, sì, ma senza maschera.