La visibilità di una cicatrice è legata al suo riconoscimento. Se è invisibile, non è un problema. Qui, tuttavia, funziona al contrario: proprio perché invisibile, diventa problematica, e bisogna lottare, in modo arduo, per vedersi affermati dei diritti. Il Sé insomma porta in spalla il suo zainetto, ricolmo di criticità, cercando di farle spuntare dalla cartella, per vederle così riconosciute anche dagli altri.
Esistono diversi modi per esporre le proprie cicatrici invisibili: c’è chi sceglie di parlarne, chi di scriverne, chi si tatua. L’arte, in questi casi, salva: ascolta e, in silenzio, prende per mano e accompagna nel percorso di guarigione di una cicatrice, che, avvertita inizialmente come grande, si fa man mano più piccola. Lo raccontano bene il funambolo che ho sulla schiena e il samurai tatuato sul mio avambraccio, o ancora l’amazzone sulla mia gamba. Sono tre simboli di forza; eppure, il mio samurai ha la testa bassa, il mio funambolo tentenna, mentre cerca l’equilibrio, la figura femminile pare piangere.
Sul corpo, ho cicatrici visibili, ben evidenti; le più importanti, però, sono quelle che non si vedono, a cui ho dato io una forma. Tatuarmi per me è un passaggio fondamentale, quando attraverso un dolore; è la tappa finale, un po’ come una medaglia.
"Scialuppe su pelle". Illustrazione di Aurora Protopapa.
Il primo tatuaggio lo ricordo benissimo: è arrivato coi miei diciassette anni; nonna se n’era andata tre giorni prima. Il secondo è volato sulla mia scapola, con le sue ali forti, proprio come quelle della fenice che raffigura. Dopo qualche anno, allo stesso modo, è giunto a me, dal Giappone, Doraemon, insieme al kanji del Destino. Parrà strano leggere questo, ma la verità è che quella piccola creatura azzurra mi salva quasi ogni giorno e mi ricorda che la vita continua, che è possibile andare avanti, nonostante le difficoltà, e che queste si possono superare. Lo stesso significato è evocato dalla sua compagna di squadra Lasagna: sul mio braccio destro si è imposta con forza, è arrivata e ha preso il suo posto, scegliendolo, proprio per essere ben visibile; mi ricorda che nonostante le mie cicatrici fisiche e tutti i controlli che continuo a fare, io ci sono. Ho scelto di tatuare lei perché, dopo ogni controllo andato bene, a qualsiasi orario del giorno, resta sempre e comunque la mia forma di celebrazione, per buon auspicio. È il mio porta fortuna, insomma, nel vivere la malattia.
Dopo tatuaggi colorati, grossi, piccini, romantici, si è imposto, per ultimo, un teschio, sulla mia coscia. Lui è arrivato per ricordarmi che l’anima resta. Al suo interno, si nota un cuore anatomico. Pare battere.
Così, il mio corpo è diventato tela della mia storia e delle mie battaglie, alcune vinte, altre perse, altre ancora da concludersi; viverle così, però, mi aiuta. Mi ricorda che possiamo essere segno di ciò che siamo e, soprattutto, di ciò che è stato e non è più.
Ricercare un segno, per ogni mia cicatrice, soprattutto se invisibile, mi consente di donarle la validità che essa ha. Riconoscere la realtà e imprimermela addosso, mi salva.